Santa Maizie di Jami Attenberg

Maizie

Titolo: Santa Maizie
Titolo originale:
 Saint Maizie
Autore: Jami Attenberg
Traduttore: Paola Buscaglione Candela
Editore: Giuntina
Data di uscita: 26 maggio 2016
Prezzo:  16,50 €
Genere: Romanzo
Pagine: 297 pp

L’ultimo romanzo di Jami Attenberg (ho già parlato del suo precedente,  I Middlestein) ripercorre la vita di Maizie Phillips-Gordon, conosciuta come la regina della Bowery (una nota via del Lower East Side, a Manhattan). Tra gli anni venti e gli anni quaranta Maizie lavorò al botteghino del cinema Venice, di cui era proprietaria, diventando involontariamente un personaggio famoso quando Joseph Mitchell scrisse di lei sul New Yorker. La narrazione si sviluppa attraverso il diario di Maizie, estratti dalla sua autobiografia inedita e le testimonianze di chi l’ha conosciuta (tutto naturalmente è fiction immaginata dalla Attenberg); un espediente letterario molto interessante che ricorda il racconto Dalia Nera e Rosa Bianca di Joyce Carol Oates.

Maizie era una ragazza come tante, forse per i costumi dell’epoca anche peggio di tante: sboccata, volgare, sessualmente libera, niente matrimonio, niente figli, indipendente (che a quel tempo non era un bell’aggettivo per una donna, purtroppo), una relazione con un uomo sposato. Non andava mai in sinagoga, non era particolarmente credente. La sera frequentava locali malfamati in cerca di alcol e compagnia. Però Maizie era anche una donna generosissima, non esitava a donare cospicue somme di denaro a donne bisognose d’aiuto, a soccorrere i senzatetto di New York chiamando l’ambulanza e pagando per le cure e il successivo soggiorno in qualche hotel. Perché i santi sono questo: persone normali, magari con qualche difetto, ma capaci di grandi gesti.

Maizie aiutò anche sua sorella a superare una forte crisi di nervi standole accanto sempre, anche nei momenti più difficili; cambiò casa di continuo per accontentare le sue richieste, averla vicino al lavoro e aiutarla in caso di emergenza. Perché i santi fanno anche questo, si sacrificano. Aiutano gli altri. Questo è lo scopo della loro vita. Questo era quello di Maizie ogni sera, dopo aver lavorato tredici ore di fila nel gabiotto dei biglietti.

Santa Maizie non è la storia di una persona devota e perfetta, ed è proprio per questo che Mazie, Queen of the New York Bowery, 1946.leggendolo ho afferrato il senso profondo dell’essere santo: è l’impulso a diventare una persona migliore. Perché questo sono i santi, persone reali a volte persino sbagliate o crudeli.

“Ho bisogno di santi per ogni cosa. Santo degli spiriti liberi. Santo dei folli danzanti. Santo dell’oceano. Santo del cielo. Santo della luna. Santo degli amanti… Mi piace pensare che tutti i santi veglino su di me… So che non è reale, non sono mica pazza. Solo è piacevole avere qualcosa di cui sognare stando in questa mia gabbia.”

Maizie è una donna che conquista pagina dopo pagina per il suo anticonformismo: “Mi sembra che il corteggiamento richieda un mucchio di tempo. Stai lì ad aspettare che telefoni, poi che venga a casa da te… poi che ti dica quanto sei bella e infine che si innamori di te. Non sono abbastanza paziente per tutto questo. Voglio un amore istantaneo”. Il libro diventerà presto una miniserie con Helena Bonham Carter come protagonista e produttrice. Non stupisce che l’attrice sia rimasta incantata da Maizie. Della regina degli homeless affascinano soprattutto le contraddizioni della sua vita: è selvaggia senza essere libera, fugge da un padre violento e, invece di crearsi una famiglia diversa da quella di provenienza, sceglie di non sposarsi restando accanto alla sorella, è una bionda platino mondana e amante dei piaceri, ma nel poco tempo libero si dedica ai derelitti della città. Preferisce darlo l’amore piuttosto che riceverlo, perché i santi sono così: generosi. Maizie era forte e allegra, ma nascondeva una sofferenza immensa da cui non si faceva soppraffare, anzi, la combatteva migliorando la vita degli altri, portando conforto e speranza ovunque ci fossero sacche di dolore.

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Grasshopper Jungle

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Titolo: Grasshopper Jungle
Titolo originale:
 Grasshopper Jungle
Autore: Andrew Smith
Traduttore: Vanessa Valentinuzzi
Editore: Mondadori
Data di uscita: 24 maggio 2016
Prezzo:  17 €
Genere: Romanzo
Pagine: 344 pp

Grasshopper Jungle è la storia di Austin Szerba, un ragazzo della provincia americana che passa le giornate ad andare sullo skateboard insieme al suo amico del cuore, Robby. Il loro posto preferito è un vicolo, soprannominato Grasshopper Jungle, vicino al centro commerciale di Ealing, Iowa, la noiosa e fin-troppo-calma cittadina dove sono nati e cresciuti. Austin ha anche una ragazza, Shann, ma riguardo ai suoi sentimenti e alla sua sessualità è molto confuso. La ama, ma allo stesso tempo prova attrazione per Robby. Per una coincidenza, una sera, Austin e Robby assistono al furto di un misterioso oggetto, una bizzarra sfera al cui interno si trova una sostanza che trasforma gli uomini in enormi mantidi religiose pronte solo a riprodursi e mangiare in continuazione. Austin ci racconta attraverso il suo diario e i suoi disegni gli avvenimenti che condurranno lui e i suoi amici a scoprire l’inquietante laboratorio dove anni prima sono state create le mantidi religiose che stanno invadendo il pianeta. In un mondo impazzito, dove gli adulti vengono divorati da orribili mostri, saranno proprio Austin, la sua fidanzata e e Robby gli unici a tentare di fermare le spaventose creature alte quasi due metri golose di carne umana.

Grasshopper Jungle è un libro stranissimo e surreale e apocalittico, una storia di fantascienza scritta in uno stile che tanto deve a Mattatoio numero cinque di Vonnegut; ma è anche un romanzo di formazione che racconta il difficile passaggio all’età adulta e di un momento di totale confusione sessuale.

Andrew Smith ha saputo descrivere con una scrittura asciutta, fresca, scorrevole e molto incisiva l’America meno nota, quella della grande provincia, degli stati del granturco del Midwest lontani dal glamour di Los Angeles e New York. Questa è la storia di tutti gli adolescenti che si annoiano in sperdute cittadine, dove l’unica attrazione spesso è un fatiscente centro commerciale, magari pieno di negozi chiusi per via della crisi. Dove non succede mai niente. Dove tutti se ne vanno e chi rimane va avanti a forza di Xanax. Ed è anche un libro sul profondo significato dell’identità americana, una società composta da tante culture diverse che si sono appiattite e uniformate perdendo le proprie radici, tanto che finiscono a vivere in non-luoghi come Ealing.

E Austin tenta di recuperare quelle origini narrando in un diario la storia dei suoi avi – Szerba è un cognome di origine polacca – tramite commoventi digressioni sulla durezza della vita degli emigrati. L’umiliazione e la perdità di identità li attendono già all’arrivo a Ellis Island, quando gli agenti della dogana gli cambiano il cognome, a loro giudizio troppo complicato e bizzarro, togliendo le consonanti in più. Grasshopper Jungle ci racconta il senso di esclusione di chi lascia il proprio Paese per cercare fortuna e approda in un posto dove nulla gli appartiene culturalmente. Ci mostra i sacrifici fatti per ritagliarsi un piccolo spazio, per imparare una nuova lingua e, quindi, un nuovo modo di pensare. Un tema attualissimo in un Paese come il nostro che affronta quotidianamente (male, in modo goffo e senza aiuto) il flusso migratorio. E poi c’è l’aspetto più interessante del romanzo: la sensazione che ha il protagnista di sentirsi sempre ai margini del mondo; non solo per via delle sue origini o perché sente che Ealing è troppo piccola per le Grandi Speranze di un adolescente, ma anche per via della confusione sessuale che lo porta continuamente a chiedersi: chi sono io? Una buona domanda che non bisognerebbe mai smettere di farsi. E che ci aiuta a capire che non c’è cosa più normale dell’essere diversi.

Tradurre questo libro è stata una splendida avventura, un viaggio nel cuore dell’America, nelle incertezze dell’adolescenza, ma anche un’occasione per lasciarmi contagiare dalla grande energia di Austin e Robby, due eroi come tutti.

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Tradurre il romanzo di genere: “Le conseguenze dell’odio” di Elizabeth George

E. George

La scorsa estate ho avuto l’enorme piacere di tradurre Le conseguenze dell’odio, l’ultimo libro di Elizabeth George (edito da Longanesi, in libreria dal 5 novembre) insieme alla preziosissima Annamaria Biavasco. Questa volta l’ispettore Thomas Lynley – protagonista di numerosi romanzi dell’autrice da cui la BBC ha tratto una serie – e i suoi colleghi di New Scotland Yard tra cui il sergente Barbara Havers, indaga sull’omicidio di una scrittrice e femminista inglese.

Non voglio aggiungere nulla sulla trama e sulle sconcertanti scoperte che le indagini porteranno alla luce, smascherando torbidi e morbosi segreti nascosti dietro l’apparente vita tranquilla della campagna del Dorset. La mia è invece una riflessione sulla traduzione del romanzo di genere e su alcuni dilemmi con i quali ci confrontiamo davanti a un testo di questo tipo.

Primo scoglio: le ripetizioni. Molto spesso gli autori di lingua inglese usano «he/she said» alla fine di ogni frase, andando avanti per pagine intere. Loro possono. Noi, no. Anche se nel caso di Carver o Hemingway sono scelte stilistiche da rispettare, in italiano la ripetizione eccessiva risulta fastidiosa nel caso di un romanzo giallo. Perciò mi sono armata di una lista di sinonimi e verbi che potessero non stancare il lettore, seguire l’intenzione originale dell’autrice e sfruttare la ricchezza di vocaboli che ci offre la nostra lingua: domandò, ripeté, proruppe, continuò, annunciò, fece, aggiunse sono verbi, anzi, ferri del mestiere di grandissimo aiuto. Lo stesso vale per gli avverbi. Anche se inizialmente viene spontaneo usare cose tipo innocentemente, solennemente, insistentemente, rileggendo mi accorgo sempre che è davvero brutto; meglio optare per: con aria solenne, in modo innocente, con aria severa, cercando di variare il più possibile – come suggerisce Stephen King in On Writing, gli avverbi spesso non sono nostri amici.

Seconda considerazione: le vicende dell’ispettore sono ambientate in Inghilterra e sebbene la George sia americana usa espressioni british in abbondanza per caratterizzare i personaggi. Traducendo, però, dobbiamo trovare una parola che indichi oggetti, festività, o anche cibo tipicamente inglese per cui non c’è una definizione breve e unica. Un esempio su tutti è il sandwich preferito di Barbara Havers, il cheap butty: un panino con il burro, patatine fritte bollenti, ketchup e HP, ossia una salsa simile al sugo dell’arrosto (leggero, no?). Il mio dubbio, aggravato dai cinquanta gradi di luglio e dai tempi stretti di consegna, era: lo lascio in inglese dando per scontato che i lettori cerchino il termine su internet se non hanno mai avuto il piacere di occludere le loro arterie con i grassi saturi di un cheap butty, oppure lo traduco? Alla fine ho optato per la seconda scelta, anche se risulta un po’ lunga, e ho tradotto con panino alle patatine fritte. Altre espressioni tipiche inglesi (a parte bloody hell per cui possiamo usare un bel porca miseria) sono, ad esempio, ʺso there’s thatʺ che a volte si può tradurre con: considera che, ecco qualcosa su cui riflettere, bisogna considerare questo. Mentre ʺthere’s thatʺ si può rendere con: appunto, esatto.

Un altro ostacolo è quando, come in questo romanzo, uno dei personaggi riceve una lettera che in originale è scritta in un inglese sgrammaticato. Cosa fare? In questo caso, ho scelto di renderla in un italiano sgrammaticato. In fondo, il patto lettore-autore-traduttore implica che i personaggi stiano parlando la stessa lingua, dunque mi sembrava che lasciarla in inglese avrebbe interrotto questo comune accordo con i lettori.

Terza difficoltà: i verbi. Gli autori anglofoni possono narrare fatti antecedenti al racconto usando solo e sempre il simple past, noi a volte abbiamo bisogno del trapassato remoto. Il problema è che rischia di appesantire un po’ la lettura. In questo caso le scelte sono due. La prima è quella di iniziare con il trapassato remoto per far capire che parliamo di un avvenimento precedente alla narrazione e poi continuare con il passato remoto, soprattutto se ci sono dei dialoghi e se il flashback in questione dura diverse pagine. Se si tratta invece di una pagina si può scegliere di usare il trapassato remoto e tornare al passato remoto solo quando il racconto del flashback è terminato.

Il fatto è che non esiste una regola. È una questione di leggerezza, fluidità e soprattutto di musicalità del testo. Molto spesso ci vogliono giorni e notti a rimuginare, ore a ripetere pagine a voce alta per decidere cosa fare. In Le conseguenze dell’odio ho scelto di usare il trapassato anche per un paio di pagine in quei punti in cui l’uso del passato remoto confondeva un po’ e non lasciava capire in che successione erano accaduti gli avvenimenti. 

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‘Sembrava una felicità’ di Jenny Offill

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Titolo: Sembrava una felicità
Titolo originale:
 Dept. of Speculation
Autore: Jenny Offill
Traduttore: Francesca Novajra
Editore: NNE
Data di uscita:19 marzo 2015
Prezzo:  16 €
Genere: Romanzo
Pagine: 162 pp

Una giovane scrittrice e insegnante sogna l’affermazione intellettuale sulla scena letteraria – vuole diventare un «mostro d’arte» – , nella New York dei nostri giorni. Ma la vita è un’altra faccenda, e se anche aveva giurato a se stessa di non sposarsi mai e di non metter su famiglia, la nostra si innamora, e le cose cominciano a girare in tutto un altro modo. Il desiderio di realizzarsi professionalmente, di dedicarsi totalmente alla propria arte, si scontra con le gioie e i dolori della vita coniugale, con la distrazione dalla scrittura imposta dalle responsabilità famigliari.

L’eroina di Sembrava una felicità deve dunque lottare per trovare il difficile equilibrio su cui si regge un matrimonio e affrontare la scoperta che chi ci vive accanto non è esattamente come ce l’aspettavamo. Jenny Offill racconta il sentimento profondo che lega due persone e l’amore incondizionato per i figli con grandissima ironia – senza lasciar prevalere cinismo e disillusione – e con una prosa originalissima, molto vicina alla poesia. Brevi paragrafi con diverse citazioni, da Keats ai cosmonauti, da Kafka a Wittgenstein, danno origine ad una linea narrativa la cui forma fa pensare a Joan Didion e soprattutto a Mai ci eravamo annoiati di Renata Adler – anche se la protagonista del romanzo della Adler, Jen Fain, ha uno sguardo più amaro sulle cose – a cui la Offill aggiunge un tocco lirico unico, proprio come il suo modo di vedere il mondo: frammentato, scomposto e imprevedibile.

La Offill, attraverso la commovente storia d’amore al centro del romanzo, ci racconta come a volte le cose non vadano esattamente come avevamo previsto; nostro malgrado il dolore ci travolge, deptofspeclasciando ferite profonde. E magari scopriamo che è anche un po’ per colpa nostra, per mancanza di comunicazione, perché non sappiamo più ascoltare l’altro. Spesso però, quando ci si accorge di non comunicare più con chi ci vive accanto, è sempre troppo tardi.
Così, nonostante il proposito giovanile di stare alla larga dalla sofferenza, la protagonista di Sembrava una felicità è costretta a doversi misurare con una crisi coniugale che le piomba addosso inaspettatamente.

La scrittura della Offill è frammentata proprio come lo è la vita moderna, in cui nulla è mai stabile, soprattutto sentimentalmente si fatica a trovare solidità, tutto può accadere. Il cuore umano è intermittente – concetto su cui Proust ha scritto pagine bellissime nella Recherche – e la scrittura dell’autrice racconta proprio questi spazi vuoti, tra l’innamoramento e la crisi, sentimenti perduti che, a volte, possiamo tentare di recuperare.

Bellissime sia la traduzione sia la nota finale a cura di Francesca Novajra, che svela interessantissime soluzioni adottate nel rendere in italiano il romanzo, i richiami nascosti ad altri autori, e qualche segreto sul metodo di scrittura della Offill.

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‘La signora Armitage’ di Penelope Mortimer

armitageTitolo: La signora Armitage
Titolo originale:
 The Pumpkin Eater
Autore: Penelope Mortimer
Traduttore: Isabella Zani
Editore: Minimum Fax
Data di uscita: settembre 2014. Prima edizione americana, 1962.
Prezzo:   € 11 euro
Genere: Romanzo
Pagine: 232 pp.

Una donna racconta all’analista il suo matrimonio in pezzi. La signora Armitage ha infatti scoperto che il suo ultimo marito (ne ha alle spalle altri tre con cui ha avuto dei figli) la tradisce. Nonostante la crisi, i sospetti, i litigi con il marito Jack, la donna desidera comunque avere un figlio da lui. Penelope Mortimer in La Signora Armitage, pubblicato nel 1962, ha raccontato i segreti di un legame scandito da tensioni crescenti con uno stile unico, intriso di sarcasmo da black comedy, dissacrante e dalla prosa impeccabile.
Gran parte del romanzo è scritta, con grande raffinatezza, in forma di dialogo, come se la Mortimer avesse deciso di lasciarci entrare in casa Armitage e origliare dietro la porta, mentre i due protagonisti discutono delle cose del cuore. La signora Armitage chiede al marito se l’ha tradita, lui si schermisce in un tripudio di battute pungenti. Jack è uno sceneggiatore di successo, lei una signora borghese scontenta, malinconia, non ha un lavoro – non si deveeater occupare neanche della casa giacché gli Armitage dispongono di collaboratori – è devota ai suoi figli, ne desidera ossessivamente altri ed è innamorata del marito, a tal punto da voler credere, almeno inzialmente, alle sue eclatanti bugie. La Mortimer scava a fondo nelle insoddisfazioni femminili facendo luce sui meccanismi su cui si regge il matrimonio borghese. È più doloroso vivere nella quotidiana consapevolezza dell’ipocrisia o ammettere di aver sbagliato vita, di dormire ogni notte accanto a un uomo che non ci ama? E perché la signora Armitage continua a voler metere al mondo dei figli? Che tipo di sublimazione l’affligge?

La signora Armitage incarna le contraddizioni della condizione femminile: con i suoi tre divorzi è anticonformista, ma è anche legata alla sua casalinghitudine, alla maternità come unica e sola realizzazione personale. È una donna che è stata educata a tacere su certi argomenti, ad accettare passivamente quel che la società (in quegli anni) offre a una donna, ma che rivela una personalità complessa, un’interiorità ricca e ribelle, moderna, con i nervi a pezzi come tante altre donne (mi viene da pensare a quante, oggi, popolano i fatti di cronaca nera) soffocate e prigioniere di un apparente paradiso domestico.
Nonostante lo stile della Mortimer sia diretto, la straordinaria fascinazione di questo capolavoro risiede in ciò che si coglie tra le righe. Le nevrosi femminili, desideri e insoddisfazioni, anche sessuali, vengonono affrontate in modo diretto e profondo, insieme a molti temi considerati tabù negli anni sessanta, fino a far luce su cosa la signora Armitage tenta di compensare tramite l’attaccamento ai figli.

Anne Bancroft in 'Frenesia del piacere' ('The Pumpkin eater' in originale)

Anne Bancroft in ‘Frenesia del piacere’ (‘The Pumpkin eater’ in originale)

Romanzo modernissimo, dalla prosa meravigliosa, La signora Armitage fu anche adattato per il cinema ( il titolo italiano è Frenesia del piacere) da un maestro del dialogo, il premio Nobel Harold Pinter. L’autrice ha attinto a molte vicende della propria vita personale – il suo legame al John a cui è dedicato il libro – anche se contrariamente alla protagonista Penelope Mortimer ha avuto una carriera di successo, una vita indipendente e intensa.

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‘Cassandra al matrimonio’ di Dorothy Baker

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Titolo: Cassandra al matrimonio
Titolo originale:
 Cassandra at the Wedding
Autore: Dorothy Baker
Traduttore: Stefano Tummolini
Editore: Fazi
Data di uscita: 2014. Prima edizione americana, 1962.
Prezzo:   € 16, 50 euro
Genere: Romanzo
Pagine: 274 p

Cassandra Edwards, laureanda alla prestigiosa università di Berkley, torna a casa dei suoi genitori per il matrimonio della sorella gemella Judith. Brillante, ironica, e con i nervi a pezzi, la protagonista di questo bellissimo romanzo giunge al ranch di famiglia turbata dall’ idea delle nozze e dalla possibilità di perdere non solo sua sorella, ma una parte di se stessa. La Nostra, credendo di non poter vivere condividendo Judith con un’altra persona, decide quindi di impedire, ad ogni costo, l’imminente matrimonio con un giovane dottore di buona famiglia, Jack Finch.

Come biasimarla? Cassandra ha vissuto la sua vita in una famiglia di intellettuali, con un padre che adorava le sue figlie; le due sorelle sono  cresciute in una cerchia chiusa e privilegiata di persone che hanno educato i figli facendogli credere che non avrebbero mai avuto bisogno del mondo esterno, che l’intelligenza le avrebbe salvate sempre rendendole diverse, migliori. Cassandra è una giovane donna complessa, emancipata, con la fragilità di nervi tipica dell’era moderna, la sua personalità è ancora in divenire e legata in modo morboso a Judith.
Con una voce straordinariamente fluida, Dorothy Baker narra la ricerca di identità avvalendosi di una prosa densa di emozioni e di ironia, ponendoci davanti a questioni fondamentali: Come affronterò le cose che cambiano? Quali sono i motivi per cui vale la pena vivere? Come andrò avanti?
Invece di affrontare la separazione dalla sorella, Cassandra tenta di controllare, dominare il loro rapporto e di indurla a non sposarsi, ristabilendo quel legame forte che un tempo le aveva rese una cosa sola – le due erano praticamentecass2 inseparabili, prima che Judith si trasferisse a New York e si fidanzasse.

Judith è indipendente ed equilibrata, mentre Cassandra è disturbata, innamorata di Judith a tal punto da non poter sopportare che si sposi e fragile. Ma perché le due sorelle sono così diverse? Quale influenza ha avuto la famiglia sul loro sviluppo?
Dorothy Baker riesce a dipingere splendidamente la figura di Cassandra, il suo lato oscuro, manipolatore, lasciando la narrazione a sua sorella Judith: «C’è solo una cosa che potrebbe aiutarla, anzi perfino salvarla. Solo se io andassi in frantumi con lei». Attraverso gli occhi della gemella scopriremo di più sulle relazioni di Cassandra con le altre donne, sul suo affascinante lato inquieto e indomabile.

Dorothy Baker ha descritto perfettamente i meccanismi familiari e le conseguenze che si ripercuotono sui figli; ha creato dei personaggi affascinanti –Dorothy e Judith – di cui amiamo i pregi, i difetti e le insicurezze perché ci aiutano a far luce sui misteri del cuore umano, sulle Cose che muovono le nostre azioni.
Uscito nel 1962, Cassandra al matrimonio è un libro intenso e moderno tradotto meravigliosamente da Stefano Tummolini e con un’ imperdibile postfazione di Peter Cameron.

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‘Mai ci eravamo annoiati’ di Renata Adler

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Titolo: Mai ci eravamo annoiati
Titolo originale:
Speedboat
Autore: Reanta Adler
Traduttore: Silvia Pareschi
Editore: Mondadori
Data di uscita: marzo 2014. Prima edizione americana, 1971.
Prezzo:   € 17, 50 euro
Genere: Romanzo
Pagine: 189 pp.

Vladimir Nabokov soleva dire ai suoi allievi che quando si legge un libro bisogna lasciar perdere le contestualizzazioni temporali o sociali, la vita dell’autore, e tutta quella roba che alle scuole medie facevano passare per fondamentale. Secondo Mr N. bisognerebbe tuffarsi nel libro e ascoltare la storia che ci viene raccontata. Dopo aver letto questa teoria in un’intervista al geniale scrittore, ho sempre cercato di seguirla, finchè una settimana fa mi è capitato tra le mani Mai ci eravamo annoiati di Renata Adler.  Ecco, stavolta la regola aurea l’ho infranta, perché per apprezzare quest’opera così moderna è necessario capire tutto del periodo in cui è stata pubblicata. Si tratta di un libro indissolubilmente legato al tempo storico in cui è ambientato e al contesto sociale urbano e bohémien dei primi anni settanta. Narrato in prima persona dalla giovane giornalista Jen Fain, Mai ci eravamo annoiati racconta in modo frammentato, discontinuo e con frequenti salti temporali la vita di una ragazza emancipata che vive da sola e lavora a New York. Feste, incontri bizzarri, taxi, la città, gli uomini che frequenta, la narratrice sembra appuntare tutto ciò che la colpisce costruendo una sorta di diario privato. Renata Adler non ha voluto costruire un romanzo basato sulla trama – come spiega lei stessa nel libro, esistono solo un numero limitato di trame –  né una serie di lunghe riflessioni in stile stream of consciuosness. Si tratta piuttosto di considerazioni sul mondo intellettuale che affolla La Grande Città; galleristi, scrittori, intellettuali vengono scrutati e raccontati con grande senso dell’ironia. La Adler è un’attenta osservatrice dei primi segni di nevrosi di una classe di privilegiati professionisti urbani con le loro aspettative a volte deluse, i riti sociali che generano un nuovo tipo di conformismo. La scrittura della Adler dunque va contestualizzata ed è inseparabile dall’epoca che racconta. Mai ci eravamo annoiati ha difatti il pregio di contenere il respiro del proprio tempo e il difetto di esserne inscindibile.

ADLER2La scrittrice, che oggi ha 76 anni, diventò un punto di riferimento per gli intellettuali del periodo e fu una grande frequentatrice della high society newyorchese. Mondanissima, colta e moderna diventò giornalista del New Yorker, fu amica di Oscar de la Renta, dei Von Bülow, del grande fotografo Richard Avedon; conosceva profondamente il mondo che poi ritroveremo in Mai ci eravamo annoiati, verso cui mantenne uno sguardo scettico e ironico.  L’autrice fuggì dall’Italia da bambina  – le leggi razziali le avrebbe riservato una cupa prospettiva per il futuro – , e si stabilì in America con la sua famiglia. Si laureò in Filosofia ad Harvard e divenne ben presto l’emblema della donna intellettuale che lavora nell’ambiente editoriale.

Renata Adler e Joan Didion nel 1978

Renata Adler e Joan Didion nel 1978

Lo stile della Adler è assolutamente rivoluzionario: un mix tra fiction e non fiction in cui la linea di confine tra reale e surreale, memoir e finzione è molto sottile. Mai ci eravamo annoiati è un libro innovativo, la sua pubblicazione fece scalpore perché scardinava le regole del romanzo con una scrittura nevrotica, veloce, asciutta e frammentata, riprendendo la tradizione inaugurata da Muriel Spark e da Dawn Powell – con cui condivide le ambientazioni nel demi-monde newyorchese. Il suo valore è nel coraggio di osare, di inventare, come la sua coeva Joan Didion, un nuovo stile e nell’aver suggerito una nuova strada a generazioni di scrittori. Last but not least, bellissima la traduzione italiana di Silvia Pareschi.

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‘Quello che rimane’ di Paula Fox

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Titolo: Quello che rimane
Titolo originale:
Desperate Characters
Autore: Paula Fox
Traduttore: A. Cagolo
Editore: Fazi
Data di uscita: 11 aprile 2003. Prima edizione americana, 1970.
Prezzo:   € 13, 50 euro
Genere: Romanzo
Pagine: 211 pp.

Otto  e Sophie Bentwood sono un’elegante coppia agiata di Brooklyn. Siamo alla fine degli anni ‘60 e i due quarantenni vivono da soli in un appartamento arredato raffinatamente con pezzi unici e tantissimi libri. Una sorta di torre d’avorio che li protegge da qualcosa di minaccioso e incomprensibile che incombe su di loro, qualcosa che sta per abbattersi con ferocia felina nel perfetto microcosmo dei Bentwood. Otto è un avvocato in procinto di dividersi dal suo socio – rottura che gli provocherà turbamenti e ansie continue – lei una ex traduttrice dal francese. Improvvisamente la vita dei due intellettuali chic viene sconvolta da un gatto – sospettato di avere la rabbia – che morde Sophie sul braccio. L’episodio, vero motore narrativo del romanzo, interrompe l’apparente serenità di superficie che regnava in casa – sotto la quale si nascondevano nevrosi e insoddisfazioni pronte ad emergere – e genera una notevole ansia, creando suspense nel romanzo, come ha notato Jonathan Franzen nella prefazione all’edizione inglese. Sophie diventa preda di una profonda paura che la torturerà fino all’ultima pagina. Bisognerà catturare il gatto? Ha davvero la rabbia? Dovranno ucciderlo? Sophie dovrà fare delle iniezioni? Oppure la coppia si allarma per nulla?cop

In una New York moderna turbata da una società in mutamento, a volte gratuitamente crudele, la coppia in crisi sentimentale si muove tra feste da amici e la loro casa a Long Island scoprendo che il mondo è cambiato e in una direzione imperscrutabilmente folle. Quando si recano per un po’ di pace nella seconda casa, la ritrovano misteriosamente vandalizzata. La violenza di alcuni atti, un sasso tirato alla finestra di casa dei loro amici, i ladri che fanno a pezzi la casa di campagna, il socio di Otto che si presenta ubriaco e tenta di flirtare con Sophie, le confidenze sgradevoli e indesiderate di un’amica, fanno saltare i nervi alla coppia protagonista. Il mondo è strano e indecifrabile, non ci sono spiegazioni per la maggior parte delle cose che accadono, non esistono parole che possano consolarci, ma solo macchie d’inchiostro che colano da una boccetta rotta sul pavimento di un appartamento. Se Sophie ha davvero contratto la rabbia il suo destino sarà così dolorso? In fondo, riflette la donna, da malata non farà che adeguarsi, diventando proprio come il resto del mondo lì fuori: infetto, spietato e senza speranze.

Quello che rimane è un romanzo meravigliosamente triste, claustrofobico ed estremamente moderno nel dipingere le nevrosi della borghesia, le fragilità del matrimonio. La visione paranoica, asfittica e introspettiva dei personaggi  ha spesso ingiustamente allontanato i lettori da questo prezioso libro, scritto magistralmente, tanto da essere stato per molto tempo fuori catalogo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – l’edizione italiana è tutt’ora introvabile. Fortunatamente intorno al ’99 è stato rivalutato da Jonathan Franzen – che lo scoprì nella biblioteca di una residenza per scrittori in cui soggiornava – e da David Foster Wallace  che lo hanno incluso nei programmi dei loro corsi di scrittura rendendo giustizia allo splendido stile di Paula Fox.

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‘La ferocia’ di Nicola Lagioia

ferocia

Titolo: La ferocia
Autore: Nicola Lagioia
Editore: Einaudi
Data di uscita: 23 settembre 2014
Pagine: 411
Genere: romanzo
Prezzo:19,50

Clara Salvemini, bellissima rampolla di una potente famiglia di costruttori pugliesi, viene ritrovata morta su una strada statale che collega Bari a Taranto in seguito ad un incidente. Le circostanze del decesso rimangono misteriose. Cosa ci faceva Clara nuda su una strada alle due di notte? Per qualcuno, nulla di strano. Clara aveva una pessima reputazione, una giovane donna viziosa e frivola. Probabilmente è stato un suicidio.
La morte della ragazza getta una luce oscura sulla sua famiglia riunita in occasione del funerale a casa Salvemini: il padre Vittorio,  imprenditore edile, sua madre, salottiera signora della Bari bene, il fratello Ruggero, affermato chirurgo,  Alberto, il marito di Clara, abituato ormai ad accettare la vita dissipata e i tradimenti della moglie. Infine li raggiunge Michele, l’ultimogenito, che dopo un periodo turbolento si è trasferito a Roma. Michele è il più fragile e tormentato dei figli, non si dà pace per la misteriosa fine di Clara e scava nella nella propria memoria ripercorrendo il rapporto profondo che legava i due fratelli, le insoddisfazioni interne alla famiglia, il loro comune senso di inadeguatezza. Pian piano, verranno dissotterrati segreti lungamente custoditi di cui i fragili e gli innocenti spesso pagano il prezzo; e a volte quel prezzo è la follia oppure la morte.
Denaro, potere, ostentato benessere economico sono solo la superficie del mondo; sotto si nasconde una zona d’ombra fatta di imbastardite relazioni familiari, corruzione, vizio e ferocia interiore. La ferocia è un romanzo della disperazione, un’indagine sulle ripercussioni delle azioni dei padri sui figli, tara che grava inesorabilmente sui personaggi.  Lo stile impeccabile di Nicola Lagioia e il ritmo perfetto della narrazione sono accompagnati dalla grande capacità di saper scavare profondamente nella psicologia dei personaggi; così l’autore riesce commuovere profondamente soprattutto nelle pagine dedicate alle vicende di Michele.
La figura della bella e dannata figlia dei Salvemini mi è parso un bellissimo omaggio letterario a Lady Madeline, sorella di Roderick Usher – deceduta per via di una malattia –  in La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe. Clara invade e turba come un fantasma delle cose passate la memoria di Michele e di chi l’ha conosciuta. Suo fratello è l’unico a non credere all’ipotesi del suicidio, il solo a sapere quali angosce nascondesse la mondanissima Clara quando era in vita: «Io e lui sprigionavamo l’energia dei morti… In un futuro inaccessibile ma certo quanto la spiga di un seme già interrato, Clara sentiva che Michele avrebbe srotolato mentalmente la missiva, le avrebbe dato voce Allora lei capiva fino in fondo. Si ricordava di essere un fantasma, e non avrebbe avuto pace fino a quando le cose non fossero tornate a posto».
Il male è descritto nelle pieghe più oscure, ma anche nelle sue banali manifestazioni: genitori anaffettivi, sesso violento, l’indifferenza dei tanti amanti di Clara. La crudeltà non risparmia nessuno, neanche chi la usa per edificare dorati e chimerici villaggi, e conduce lentamente alla caduta di casa Salvemini.
Ma questo splendido libro racconta anche la speranza e il desiderio di liberazione, la volontà di purezza e luce. Sarà Michele, il ribelle, il malato – come malata a causa delle sue dinamiche familiari è casa Salvemini – a voler capire cosa è realmente accaduto alla sorella. Suo il compito di riportare ordine e fare giustizia affilando pian piano gli artigli, trasformandosi da vulnerabile agnellino in temibile tigre –  Tiger tiger burning bright… recita la poesia di William Blake che Michele leggeva con la sorella da ragazzino. Le atmosfere lunari, la volontà di mostrare la verità dietro le ipocrisie, i gatti, gli allocchi, la notte, la follia, la guarigione, la grandissima, completa padronanza della scrittura: per tutti questi motivi  La ferocia è uno dei tre libri più belli che ho letto quest’anno.

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‘Lacci’ di Domenico Starnone

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Titolo: Lacci
Autore: Domenico Starnone
Editore: Einaudi
Data di uscita: 10 ottobre 2014
Genere: Romanzo
Pagine: 133 pp
Prezzo:   € 17,50 euro

 

«Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie». Un incipit potentissimo ci permette di entrare e di ripercorrere, in poco più di 130 pagine, l’intera vita di una famiglia con intensità e profondità e soprattutto con uno stile degno di un narratore eccezionale. Domenico Starnone ci racconta una crisi di coppia e le sue più o meno tragiche conseguenze sui figli.
Cosa accade ai legami familiari, ai lacci a cui fa riferimento il titolo, quando la stabilità emotiva, i riti quotidiani vengono improvvisamente turbati? Che effetto hanno gli equilibri e squilibri di una coppia sui rapporti con i  figli e tra fratello e sorella? Questi i quesiti che i personaggi del romanzo si trovano ad affrontare in una storia apparentemente semplice – perché ci riguarda tutti in quanto figli o genitori – ma complessa per via dei risvolti psicologici e i drammi interiori nascosti nelle dinamiche famigliari.

All’inizio del libro Vanda e suo marito sono una coppia in crisi  e cercheranno, ognuno a modo suo, di riconciliarsi ricostruendo una famiglia felice nel modo in cui lo sono tutte le famiglie felici. Conserveranno però una ferita aperta, segreti coniugali che nell’intimo sono grandi come voragini e in alcuni momenti devastano il cuore – se solo ci si sofferma silenziosamente e in disparte nel ricordo dei tempi perduti, di ciò che non si è vissuto  – anche a chi ritiene la parola Amore roba da ‘romanzetto’ di genere, come afferma il marito di Vanda. Starnone ci accompagna nella vita di coppia e famigliare dei due protagonisti mostrandoceli trentenni, ma già in un momento di profondo dissapore coniugale – crisi matrimoniale alla quale i due figli piccoli assistono in qualità di involontari e imbarazzati testimoni – e in seguito settantenni quando, tornati da una vacanza, trovano il loro appartamento messo a soqquadro. Cosa ancor più grave, Labes, l’adorato gatto di Vanda, è sparito. Che sia opera di qualche scaltro ladro pronto a raggirarli e a chiedere un riscatto per l’amato felino? O queste sono solo paranoie di chi si sente invecchiato, vulnerabile e tormentato da qualche assurdo senso di colpa? E quanto sanno i due figli, ormai adulti  e dalla vita piuttosto incasinata, che avevano l’incarico di badare a Labes?

Lacci è un capolavoro, con un bel colpo di scena finale, che attraversa un’ intera vita ‘normale’ portando alla luce sconcertanti verità sui meccanismi che fanno funzionare l’apparente placida vita di un matrimonio borghese. Domenico Starnone è un magnifico narratore in grado di svelare con grande classe, e in modo originale, la verità dietro ogni convenzione e i solidi legami che ci tengono uniti nonostante le nostre fragilità.

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